di e con Marco Baliani
regia Maria Maglietta
scene, luci, video Lucio Diana
paesaggi sonori Mirto Baliani
costumi Stefania Cempini
disegni Marco Baliani
produzione Marche Teatro
direttore di produzione Marta Morico
organizzazione, distribuzione Alessandro Gaggiotti
distribuzione Ilenia Carrone
assistente di produzione Claudia Meloncelli
direzione tecnica allestimento Mauro Marasà, Roberto Bivona
allestimento tecnico Jacopo Pace
direttore di scena Cosimo Maggini
fonico Federico Occhiodoro
comunicazione, ufficio stampa Beatrice Giongo
grafica esecutiva Fabio Leone
foto di scena Marco Parollo
In questo spettacolo porto in scena il corpo di un essere umano già fragile, corpo che in quella notte che, poi, solo dopo chiameremo sbagliata, diventa un capro espiatorio su cui accanirsi. Entrare e uscire dalle teste e dai corpi dei protagonisti notturni della vicenda, compreso un cane, è stata la mia gimkana attorale, obbligandomi a continui cambi percettivi e linguistici, dentro una rete di rimandi sonori e visivi.
Già nel precedente spettacolo, Trincea, avevo sperimentato una condizione attorale simile. Qui la ricerca è proseguita, specie nella costruzione del linguaggio, fino a uscire dal contesto narrativo centrale e aprire il flusso delle parole ad altri scenari, in un “arazzo psichico” che sposta di continuo il focus della vicenda, costringendo lo spettatore non solo a viverla emotivamente ma a farsene carico anche ragionandoci sopra.
Non è la cronaca di uno dei tanti episodi di accanimento contro la diversità, di cui sempre più spesso siamo testimoni, non è dunque un teatro “civile”, piuttosto un mettere il dito dentro le pieghe nascoste della psiche, delle pulsioni, delle indicibilità, fino a usare la mia stessa memoria biografica come parte dell’evento di cui si parla. Mi sembra di vivere in un tempo in cui la sacralità del vivente, la sua inviolabilità biologica si è incrinata e compromessa. Forse quando da cittadini siamo diventati consumatori qualcosa di quella inviolabilità si è dissolta. I corpi sono diventati merce, e devono rispondere agli stessi requisiti di efficienza e di splendore delle altre merci, altrimenti entrano nella categoria dei perdenti, degli scarti.
Corpi “stranieri”, da cui guardarsi, che con la loro sola presenza incrinano la falsa luminosità del quotidiano, corpi da cacciare via, da odiare, di cui si può dunque abusare.
Questa deriva mi spaventa molto, mi inquieta, e il teatro è l’unico modo che conosco per condividere questa mia inquietudine con la comunità degli spettatori e sentirmi così meno solo e meno impaurito.
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Dopo il successo dello spettacolo Trincea, vorrei sperimentare un’altra tappa di ricerca di quello che mi piace chiamare teatro di post-narrazione. Una narrazione dove il linguaggio orale del racconto non riesce più a dispiegarsi in un andamento lineare, ma si frantuma, produce loop verbali in cui il Tempo oscilla, senza obbligati nessi temporali.
Flussi di parole che prendono strade divaricanti mentre cercano disperatamente di circoscrivere l’accadimento di quella “notte sbagliata”. Quella manciata di minuti, chè tanto durerebbe nel Reale il puro accadere dell’evento, si amplifica e diviene big bang di quell’universo di periferia, si espande nelle teste dei partecipanti all’evento, compreso il cane, risucchiando come un buco nero anche chi non è lì su quel pratone d’erba polverosa, ma vicino ai cuori e alle coscienze di chi sta agendo.
Un turbine linguistico sostenuto da un corpo che agisce l’evento in maniera performativa, un corpo che si metamorfizza a mano a mano che l’azione prosegue, con gesti che richiamano le esperienze della body art degli anni Settanta, marchiando il corpo come fosse la tela dove l’Assurdo si mostra pienamente, al di là perfino delle parole.
Penso che oggi la sfida che il teatro deve affrontare stia tutta nel montaggio drammaturgico, che tenga conto delle nuove percezioni con cui viene veicolata la realtà, forme comunicative con cui il teatro deve misurarsi scompaginandone gli statuti. E questo non può che avvenire attraverso visioni performative, non lineari, dove il dramma viene spezzato da incursioni continue, dove l’oralità dispersiva della voce prevalga sulla linearità della scrittura scenica.
Marco Baliani