Intrattienimi interattivandomi

RIFLESSIONI SUL TEATRO / 3

Il teatro Greco di Siracusa

In questo periodo di attentato all’umanità intera, i giorni trascorrono tra incertezze e inquietudini, mi sento smarrito: quella che è stata la mia vita fino a questo momento ne esce stravolta e non c’è alcuna garanzia che in futuro possa dispiegarsi nuovamente, di sicuro non più con le stesse modalità di prima. Questo non mi spaventa, se potesse cominciare a manifestarsi, costringerebbe a misurarsi col nuovo, con l’insolito, con il non prevedibile.
È l’attesa a logorarmi. Aspettando Godot. Per cercare un disperato senso in questo tempo dell’assurdo, che misura tutta la fragilità del mio essere umano dentro questa altrettanto fragile società occidentale, provo a riflettere senza remore sulla materia che ha animato tutta la mia lunga esistenza, il teatro e i suoi territori limitrofi. Questa volta provo a esplorare una tendenza emersa da un po’ di tempo e che ha a che fare con la progressiva “scomparsa del pubblico” come scrive in un bell’articolo su Doppiozero Vanni Codeluppi.

Nel mio ultimo spettacolo Una notte sbagliata, verso la fine, quando ormai l’oscurità “sbagliata” di quella notte è stata sviscerata ma non risolta, accade uno straniamento forzato, vengo in avanti in proscenio con un microfono in mano, le luci perdono ogni valenza teatrale, si accende in parte la sala e io chiedo al microfono se qualcuno vuole farmi una domanda. Restano tutti spiazzati, finora sono stati dentro un mood preciso pur se percettivamente scombinato e diversificato e d’improvviso c’è una “caduta nell’ora” come diceva Bloch. Di colpo il tempo è tornato quello degli orologi e degli smartphone. Ma ecco che una domanda arriva davvero dalla parte del pubblico, molti si voltano per individuare chi è che ha parlato, arriva un’altra domanda e un’altra ancora, solo che sono domande già registrate, ci sono delle casse dietro che rimandano le voci come se queste fossero in mezzo al pubblico. Io cerco con lo sguardo l’interlocutore, alla terza domanda il pubblico ha ormai capito il gioco ma non sorride dato che domande e risposte hanno a che fare col cuore stesso di quello che hanno percepito finora, si parla del capro espiatorio e della violenza su una vittima inerme.
Questa falsa interruzione e finto coinvolgimento mi permette di elaborare una riflessione non scontata e di lasciare gli spettatori con un ulteriore grado di inquietudine. Ma c’è anche un altro motivo che mi spinge a questa soluzione, più nascosto e che gli spettatori non colgono, non tutti almeno, é un mio modo ironico e disincantato di fare il verso a quel teatro sempre più diffuso ultimamente, che si fonda sull’interattività con gli spettatori.

Con diverse modalità e soluzioni, questo teatro chiede in sostanza agli spettatori di non essere solo ricettivi ma di agire, intervenire, scegliere, impersonare, essere presenti scenicamente. A volte alzando una mano per rispondere a un questionario su possibili opzioni sceniche da prendere, altre volte con dispositivi elettronici manuali che vengono prima distribuiti, a volte sollevando fogli con risposte scritte, oppure ancora si viene intervistati, coinvolti, in un tripudio partecipativo che rimanda alla condivisione da social, al coinvolgimento appariscente e onnivoro. Gli attori si ritirano dalla scena, spesso di loro resta solo una voce registrata che impartisce ordini agli spettatori chiedendo loro di agire come improvvisati attori. Al di là di qualche fortunata prestazione, la maggior parte di questo teatro mi sembra che rincorra i tempi e cerchi di adattarsi ai linguaggi comunicativi attraverso cui il presente sembra manifestarsi, oppure ancora è decisamente affascinato dalla possibilità di una condivisione partecipativa al massimo livello. Ma il più delle volte è un adattamento o un’imitazione che né interroga né critica né ingaggia una dialettica con tali linguaggi, non costruisce una drammaturgia capace di usare quei codici piegandoli a uno scenario nuovo, non prevedibile e non omologabile, fondante insomma una diversità o una peculiarità.

Mi sembra in sostanza un teatro che abdica al suo divenire drammaturgia, preferendo un’interattività fittizia, come di fatto è tutta l’interattività promossa dai social o dalle emittenti televisive, che illude sempre una partecipazione di fatto inesistente, una forma furba e allettante di intrattenimento, un modo per solleticare la componente narcisista del pubblico, già abbondantemente solleticata e titillata in tal senso dal profluvio di proposte che lo inondano quotidianamente, alla ricerca disperata di un senso, nell’apparire, nel voler essere, almeno per un selfie, protagonisti.

La pratica del coinvolgimento dello spettatore è vecchia come il mondo, il teatro di strada l’ha sempre praticata, appena il clown vede che sì è formato un bel cerchio di curiosi ecco che invita un malcapitato spettatore a entrare nel cerchio, e lo fa agire buffonescamente, dirigendolo però sapientemente, portandolo esattamente dove lui vuole, e il poverino, impacciato, più cerca di essere all’altezza, più diviene oggetto delle risa degli astanti e delle intemperanze cialtronesche del conduttore. Lo stesso accadeva e accade nel circo, nel vaudeville, nel teatro di varietà, ma sono esempi di falsa complicità del tutto funzionali ai risultati che si vuole raggiungere, producendo a volte invenzioni teatrali notevoli.

Nel teatro interattivo invece si alimenta nello spettatore la sua disposizione compulsiva, da telequiz, o da giurato di un festival canoro, gli si chiede una decisione su possibili direzioni da prendere per poi o realizzarle avendole dunque già previste, oppure lasciandole cadere, a seconda delle maggioranze numeriche nelle risposte, così che per un momento lo spettatore si senta appagato nel suo protagonismo fittizio. Alla fine ciò che avviene realmente è una afasia della scena, una drammaturgia per niente anarchica né tanto meno performativa.

Quando anni fa Marina Abramovic si metteva nuda dietro un tavolo su cui erano posati svariati oggetti di cui il visitatore poteva far uso direttamente sul suo corpo, si esponeva al rischio mortale di essere nelle mani del pubblico, quella era una scelta davvero interattiva, senza rete e senza soluzioni né seguiti possibili. Nelle foto si vede il suo corpo colorato da pastelli, da colori, segnato da tagli, da ferite, spruzzato da getti di acqua o di altri liquidi, un corpo martoriato dalla improvvisa autoralità concessa agli spettatori a cui lei si concedeva, indifesa, fomentando il latente sadismo e il senso di potere di chi improvvisamente ha davvero a disposizione il corpo di un altro, e per di più di una donna. Nulla di questo rischio appare nella odierna interattività teatrale. E quindi è del tutto inutile. Meglio sottoporsi a quell’altro rischio, che è il senso stesso dell’essere in scena, quello di non essere ascoltati, o rifiutati, oppure amati, compatiti, sottoposti al giudizio, alla coscienza, alla emotività dello spettatore, giocandosi il tutto per tutto in quella partita di pura relazione. Preferisco rischiare la sconfitta scenica che far finta che non sia io a sceglierla o a eleggerla .

Nel rischio della sconfitta c’è la misura della morte, chè è questa la vera sfida, morte della scena, caduta, perdita, impossibilità di durare. Se il teatro interattivo avesse il coraggio di una performatività di questo tipo sarebbe interessante e forse costruirebbe qualcosa di ancora non visto. Altrimenti è solo un debole tentativo di strizzare l’occhio ai social e al loro modo di comunicare. D’altra parte la ricerca di “nuovi linguaggi” fa parte da sempre della tensione che accompagna la ricerca teatrale. A metà degli anni Ottanta entrarono in scena i supporti video, gli schermi, le telecamere sul palco, ma pochissimi riuscirono a far diventare questa invasione una sostanza drammaturgica realmente innovativa.

Oggi c’è una notevole e assai più ampia varietà di supporti tecnologici, dal suono alle luci, ai microfoni, al mapping, alle gopro, alle microcamere etc… e la sfida però resta la stessa, come riuscire a far interferire questi mezzi, questi supporti che sono anche portatori di linguaggi, col corpo dell’attore, con la sua dimensione del qui ed ora, senza azzannarne le prestazioni, senza disincagliarlo dalla scena ma al contrario aggiungendo un surplus di valore al suo farsi azione? È questa la domanda da farsi e spero che molti stiano cercando di sperimentare le potenzialità che si aprono. A maggior ragione adesso che questo virus sta mettendo in ginocchio non solo l’economia del mondo occidentale ma gli stessi presupposti su cui quell’economia si fondava. Si apre dunque per il teatro una sfida enorme, una necessaria drammaturgia capace di essere dentro ai conflitti che si stanno aprendo.

Ricorrere alla sola modalità interattiva è misera cosa, facile scappatoia, per animare una drammaturgia asfittica, che rinuncia a rischiare, senza un disegno da poter davvero frantumare. Quando si colloca lo spettatore davanti ad un possibile crocicchio di strade da scegliere bisognerebbe sempre ricordarsi del trivio più famoso della storia teatrale, quello dell’incontro tra Edipo e Laio. Se lo spettatore Edipo avesse scelto di far passare il carro di Laio, gli eventi successivi non sarebbero mai diventati memorabili. Solo scegliendo la strada dello scontro la tragedia è potuta passare alla storia. Ma Sofocle non avrebbe mai permesso che a decidere fossero gli spettatori del teatro ateniese, loro erano lì per vedere cosa decideva Edipo e soffrire della sua tracotanza e della sua perdizione.