EDIPO

da Sofocle

 

Regia e adattamento drammaturgico di Marco Baliani
Con Pasquale Aprile, Mario Berretta, Sem Bonventre, Alice Bonvini, Michele Bonvini, Riccardo Bursi, Federica Carra, Tommaso Ferrandina, Lorenzo Fracchia, Anna Gamba, Gabriele Graham Gasco, Matteo Ippolito, Cristina Violetta Latte, Eleonora Lausdei, Samira Mancino, Luca Morciano, Marlon Zighi Orbi, Salvatore Pappalardo, Lorenzo Prevosti, Lorenza Sgrò
Costumi e oggetti di scena di Emanuela Dall’Aglio
Musiche di Mirto Baliani
Produzione Bottega XNL – Fare Teatro e Festival di Teatro Antico di Veleia

 

PRIMA NAZIONALE

23/24/25 giugno 2023 / ore 21.30 / Teatro Antico di Veleia (PC)

 

Dopo Antigone del 2022, Marco Baliani torna a Veleia con un’altra grande tragedia di Sofocle, l’Edipo (forse la più conosciuta, studiata e rivisitata dell’intero corpus tragico dell’Antica Grecia). Baliani torna come regista e come “Maestro” del progetto “Bottega XNL-Fare Teatro” (il corrispondente teatrale del progetto “Fare Cinema” con Marco Bellocchio). Il corso è finalizzato alla formazione attoriale dei partecipanti selezionati, guidati dall’esperienza pluriennale di Marco Baliani, attraverso un quotidiano allenamento psicofisico, performativo e di indagine sulla “memoria corporea” dei personaggi, in una dimensione di teatro corale.

«Un Re è stato ucciso con tutta la sua scorta.
Questa strage è rimasta impunita per troppo tempo.
Nessuno ha cercato o voluto scoprire chi sono gli assassini o i mandanti.
I corpi di quei morti non hanno trovato pace, è come se fossero rimasti insepolti, sono rimasti a vagare come fantasmi perché nessuno ha potuto narrare la loro morte, dandole così un senso, anche se terribile.
Da allora il paese, la città, è malata di un male che è peggio di una pestilenza perché corrode gli animi e altera la convivenza civile. Prima ancora che compaia in scena Edipo, che gli venga chiesto di portare soccorso alla malattia della città di Tebe, è questo scenario che mi affascina.
Per me la tragedia è prima di tutto tragedia di un popolo, sono i cittadini della polis, quelli che la fanno vivere quotidianamente, sono loro, i loro corpi, ad agire le forme del tragico che incombe su di loro.
Per aspettare Edipo, occorre prima sapere chi sono coloro che lo attendono alla prova».

(Marco Baliani, Appunti su Edipo)

ASPETTANDO EDIPO (marzo 2023)

Sono esattamente 47 anni che lo sto aspettando, ero certo che prima o poi mi avrebbe raggiunto, e adesso è venuto a chiudere i conti con me. Ma per arrivare a incontrarci o scontrarci ce ne abbiamo messo di tempo e di giravolte esistenziali. Andiamo con ordine, cioè nel disordine costante che è stata la mia vita.

Nel 1976, complice quello che allora si chiamava decentramento culturale, il grande Giuseppe Bartolucci propose al mio gruppo da poco formato, Ruotalibera, di intraprendere laboratori teatrali nella tredicesima circoscrizione, Ostia Lido. Fu il mio primo laboratorio con giovani delle scuole superiori, un istituto tecnico. E il testo su cui esercitare la totale invenzione di rapporti che andavo allora sperimentando, fu l’Edipo, ma non l’Edipo Re di Sofocle, ma quello di Seneca. Era la prima volta che affrontavo un testo tragico in un modo così viscerale e concreto, lontano dalle reminiscenze scolastiche: ora si trattava di mettere in scena i corpi di Edipo, Tiresia e la figlia Manto, Creonte, Giocasta. Non ricordo come arrivai a creare uno spettacolo col poco tempo a disposizione, ricordo la grande impressione che fece su tutti noi la descrizione della peste che attanaglia la città di Tebe, assai vivida e proliferante in Seneca. Due insegnamenti fondamentali trassi da quel primo laboratorio. Uno, che avevo un talento naturale di tipo pedagogico nella creazione di gruppi capaci di cooperare creativamente, (la passione di quegli studenti, che oggi avranno i loro sessant’anni, era tangibile e sorprendente, così digiuni di faccende letterarie eppure così curiosi e pronti a sperimentare) e, due, che della tragedia mi colpiva soprattutto la dimensione del popolo, la corporeità degli abitanti della città, più che quello dei protagonisti. E Tebe, questa città perennemente invasa da forme pestilenziali, più psichiche che fisiche e materiali, ha continuato a tampinarmi nel tempo.

Sono dovuto passare prima dai figli di Edipo per poterlo poi incontrare, in un processo temporale retroattivo. Nel 1996 ero entrato nel corpo di Eteocle nello spettacolo teatrale I sette contro Tebe allestito per la regia di Mario Martone nel sotterraneo Teatro Nuovo di Napoli e contemporaneamente a replicare il ruolo come attore nel film Teatri di guerra dello stesso Martone.

Poi arriva Siracusa nel 2017 e sono io a dover dirigere venticinque attori nella messa in scena dei Sette contro Tebe, sempre i figli maschi dunque, e sempre una città in preda al panico della guerra alle porte, che è un’altra terribile forma di peste, come vediamo quotidianamente nelle immagini dall’Ucraina.

Arriviamo all’anno scorso per incontrarmi con le figlie di Edipo, Antigone e Ismene, e Tebe è di nuovo infestata dal lezzo di un corpo che il potere non vuole seppellire, quel Polinice che ho combattuto fraternamente quando ero stato Eteocle. E ancora dunque è la città e il suo popolo, come agli inizi delle mie incursioni nel tragico, a farmi da guida, sono quei corpi lì, impauriti, ambigui, pieni di contraddizioni ma così veri e vitali, sono loro a permettere al gruppo di attori di essere cittadini e non affresco coreutico.

Ma dimentico altri incontri. Antigone l’avevo già intravista, più come simbolo però, nelle due regie mastodontiche fatte a Bologna per le commemorazioni della strage del 2 agosto alla stazione, realizzate per due anni di seguito nel 1990 e 1991 con cento attori, nelle piazze bolognesi. E ancora un altro Edipo avevo incontrato rivisitando con Luciano Nattino i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Lì un Edipo ancora non precipitato nella angoscia della scoperta di essere incestuoso e colpevole, incontra una straordinaria figura di Tiresia che parla della assenza degli dèi nella sua esperienza di viandante cieco, quello che Edipo sarà al termine della sua vita.

E ora ci siamo, toccherà a lui farsi sotto, qui, a Piacenza tra i ruderi romani di Veleia, in questa stupenda invenzione che è Fare Teatro. Sarò in compagnia di altri venti giovani attori. Dovremo riuscire a stanarlo dal testo di Sofocle e a farlo rivivere, povera anima contorta costretta a rivivere milioni di volte la sua esistenza per le infinite messe in scena del suo nome.

Non so assolutamente, non lo so mai troppo prima, come affronteremo la sua storia, parlo al plurale perché è questo il mio teatro, una forma di esperienza corale, di creazione collettiva dove, come sempre, a me interessa più la Maestria che la Regia.

Le volte che mi sono incontrato con le tragedie classiche ho agito come un barbaro, come i barbari che restavano incantati e irretiti di fronte alle città conquistate, incapaci di comprenderne la cultura sedimentata per arrivare  a simili architetture ma allo stesso tempo pungolati ad appropriarsene, magari intuitivamente, ma con uno spirito infantile e per certi versi ludico.

Attendo dunque trepidante questa nuova impresa, attendo un’altra Tebe, che annulla in un cortocircuito temporale i così tanti anni inanellati dalla mia inesausta passione teatrale.


 

COME EDIPO, TROVARSI A UN CROCICCHIO (maggio 2023)

Si trova quel che si vuole cercare, sfugge invece quel che non si vuole cercare

Sofocle
                                                                    

Questo si sente dire Edipo quando comincia a indagare su chi abbia potuto uccidere Laio, il sovrano che prima di lui regnava sulla città di Tebe, suo padre che lui, inconsapevole di esserne figlio, ha ucciso a un crocicchio di strade.
Ho cominciato anche io a indagare, insieme a venti attori e attrici, come portare alla luce il testo labirintico di Sofocle, e mi sono imbattuto in questa frase che così precisamente si attaglia alle vicende del passato prossimo del nostro Paese. In fatto di stragi, di cittadini o uomini di potere uccisi senza che si sia mai saputo chi furono davvero colpevoli e mandanti la nostra storia ne è colma.

Nella ricerca della verità, da sempre i politici al governo si sono comportati all’opposto di quel che compie Edipo. Lui cerca la verità a tutti i costi, scoperchiando reticenze, mezze voci, depistaggi, procede senza essere frenato da convenienze e timori per il suo ruolo. Quando Creonte gli chiede se preferisce riferirgli quel che l’oracolo gli ha rivelato entrando a palazzo invece di parlare davanti ai cittadini Edipo risponde che non ha segreti da nascondere, e che l’agorà è il luogo dove parlare di fronte a tutti. In sostanza dice che non ci sono segreti di stato da secretare.

Che esempio sommo di onestà intellettuale, che dimostrazione di etica politica c’è in queste parole! E quando la verità sui colpevoli lo porterà troppo vicino alla sua stessa persona, svelando via via la sua colpa, neanche allora si tirerà indietro, è ormai posseduto dalla necessità di sapere.

La scrittura di Sofocle spesso viene vista come un “giallo”, un progressivo sfogliarsi di pagine che portano alla scoperta del vero assassino. Ma è un giallo in cui si sa fin dall’inizio chi è il colpevole, la maestria sta nel ritardarne l’esito rivelatorio, così che il centro vero dell’opera si sposti altrove, imperniandosi sulle circonvoluzioni dell’animo di Edipo, sul suo dibattersi tra la ricerca della verità sull’assassinio e quell’altra ricerca che ha a che fare con la sua identità.

Da chi è stato generato, il “chi sono io”: questa è la vera terribile ricerca che Edipo compie. È questo secondo scomodo sapere che lo travolge. Le sue sono domande che ci riguardano tutti e che con difficoltà siamo portati a farci nelle nostre vite, ognuno di noi ha un luogo nascosto dell’infanzia dove l’Io che ora siamo o crediamo di essere si è formato, è stato plasmato, ha assunto quel carattere che poi lo determinerà nelle scelte di vita.
Nei Dialoghi con Leucò Cesare Pavese fa dire a un Mendicante (che è sempre un dio travestito) rivolto a Edipo:

Ti capisco Edipo. Ma abbiamo tutti una montagna dell’infanzia.
E per lontano che si vagabondi ci si ritrova sul suo sentiero.
Là fummo fatti quel che siamo. 

Ognuno di noi, come Edipo, si è trovato di fronte a un crocicchio e ha scelto la strada da intraprendere, senza sapere dove l’avrebbe condotto. E nello scegliere un percorso sempre ne “uccidiamo” un altro, lasciando sul campo qualche vittima, accettando a posteriori che si perda nell’oblio o nel rimosso.

Edipo mostra che a un certo punto dell’esistenza, spesso quando si è vicini alla morte, quel crocicchio torna a palesarsi e chiede alla nostra presunta identità di fare i conti, di rendicontare le scelte compiute.

Se riesco a portare a termine questa altra impresa teatrale è su questa oscurità che mi piacerebbe indagare, focalizzando la ricerca delle parole e dei gesti su questo cuore centrale dell’opera, sulla domanda terribile che Edipo con fatica e disperazione riesce a farsi denudandosi di fonte a tutti.

Vuole sapere, svelare, rivelare e rivelarsi. Non gli basta più vivere ignorando.

Il fatto che siamo vivi non significa che non siamo malati
Iosif Brodskij

 

 

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