Le donne hanno avuto accesso alla scrittura tardi. In Italia nel 1913 Adalgisa Conti è un’eccezione, l’analfabetismo è la condizione femminile. La scrittura è un privilegio, un segno di distinzione. È la traccia per cui questa donna, e non le moltissime altre con una sorte simile, è giunta fino a noi con il suo nome proprio e una storia. Scrittura che diviene testimonianza e memoria di un’esperienza altrimenti destinata al silenzio.

Scrittura come segno che abita lo spazio della scena. Il luogo dove ritrova parola Adalgisa Conti è disseminato del suo testo: lettere, fogli, segni grafici sul corpo, sotto i teli, nelle vesti, sul pavimento, dal soffitto, dappertutto.

“Se vorrà che gli scriva tutta la mia vita fin dall’infanzia, sono ai suoi ordini, per quanto sono sicura che sappia tutto.” La scrittura è qui come allora possibilità di salvezza e condanna. Aver accesso alla scrittura permise ad Adalgisa di distinguersi rispetto alle altre pazienti, di comunicare e comunicarsi in un gioco sottile terribile di cui comunque non conosceva né determinava le regole. Il gioco è in mano all’uomo, il Dottore, è lui a cui la scrittura è destinata: corrisponde al suo desiderio. Per questo la tessitura dell’autobiografia e le diverse lettere al Dottore divengono il solo luogo di una seduzione altrimenti impossibile al corpo femminile, che in ospedale psichiatrico ha già subito la negazione della sessualità. L’arte della donna è solo lì nella parola. Luogo della memoria in cui però finisce per depositarsi un’identità solo in parte reale: luogo della contrattazione tra volontà di dire la verità di sé, a sé per non perdersi per continuare ad esistere anche lì nel manicomio, e il gioco impossibile del Dottore a cui è necessario dare l’immagine, quella di colpevole pentita, idonea ad essere rilasciata.

Autobiografia come rivelazione e negazione, contraffazione e memoria. In questo luogo dove ogni sera tra due donne si ripete il gioco del teatro, ogni sera Adalgisa è destinata a ripetere la sua autobiografia così come ha voluto e potuto consegnarla al dottore. Alla partitura imposta dalla scrittura si contrappone dialetticamente la memoria del corpo, gesto e canto. Il corpo ci dice a volte quello che la scrittura nasconde: la memoria di un ballo, i gesti dell’amore.

Dei 65 anni di calvario manicomiale di Adalgisa Conti ci è rimasta solo la traccia lasciata nei primi tre mesi poi il silenzio. Perché? Forse ormai la testa era “andata in vallodole”, o forse la rinuncia fu consapevole. Forse Adalgisa si rese conto che anche nella scrittura, nel suo privilegio di “alfabeta”, le era negata la possibilità di esistere come donna dotata di desiderio; anche di fronte all’uomo-dottore come di fronte all’uomo-marito non c’era altra possibilità che aderire all’immagine del desiderio maschile che la voleva colpevole del proprio desiderio erotico. Altrimenti il silenzio. E abbandonarsi alla sola parola di carne, al corpo dove il desiderio si libera nell’istinto: “talvolta gioca con le feci e l’urina, dice di dover andare a teatro, si agghinda di cenci, canta a squarciagola, i suoi discorsi sono insalata di parole.”

Il corpo si è spento, ci resta quella scrittura, ma è solo un’ombra della vita di questa donna. Il teatro che ogni giorno si ripete in questo luogo-bozzolo-grembo-carcere-tomba-manicomio, è la forma estrema per ridare vita a quell’esperienza, per dare corpo e voce alla vita che la scrittura svela e nasconde. Ma perché questo accada è necessario qualcuno che ascolti: una platea.

La platea a cui si rivolge Adalgisa è vuota.

Non resta che la platea dell’attore, elettosi ed insieme condannatosi anch’egli ogni sera a ripetere quella situazione, quella storia, quel personaggio, a ridare carne e parola al fantasma di una donna come tante incontrata fra le luci e le ombre di una scrittura. L’attore la prende dentro di sé perché Adalgisa Conti finalmente possa avere qualcuno che l’ascolti.

Alessandra Ghiglione, maggio 1996