PENSIERI DI UN RACCONTATORE DI STORIE

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Qualche anno fa ho iniziato a girovagare, solitario, raccontando storie. All’inizio non sapevo neanche io cosa stessi cercando. E ancora adesso non ho certezze, sento solo che la strada è quella giusta, per me, e che non intendo abbandonarla tanto presto. Per istinto sento che ogni raccontatore di storie (in questi anni ne ho incontrato qualcuno) è un protrattore di infanzia, con occhi bambini, dentro un corpo adulto. Per quindici anni ho cercato in teatro la mia strada, come attore, come autore, come regista, in situazioni produttive molto diverse tra loro, sicuramente cercavo le stesse cose.

Mi sembrava che il teatro fosse il luogo giusto per giocarsi ogni volta l’esistenza, come per un’avventura; un luogo instabile, non assoggettabile alle regole del mondo reale e dove anime molto potenti avevano il diritto di muoversi e agire senza gabbie e senza censure. Una parte di me ha sempre amato quei posti e quei tempi ove poter sfuggire alla classificazione delle cose del mondo dove tutto è ordinato e spesso predeterminato. I nomi stessi delle cose sono astrazioni invicibili che fissano, delle cose stesse, il concetto entro cui farle appartenere per sempre. La parola albero è una forma che contiene tutti gli alberi del mondo. Il lavoro in tutti questi anni è stato – credo – cercare sempre quell’albero lì, particolare e unico, quello di cui fare esperienza in un bosco, su un marciapiede, dentro un giardino. Quell’albero possiede un colore, un odore, un tatto, un movimento, è padrone di una sensazione, e contiene una porzione della mia memoria. La lotta per togliere quell’albero dal grande libro delle parole-contenitori è forse la mia battaglia personale, il senso profondo e oscuro che mi spinge e mi muove. Da qualche anno ho la sensazione paurosa che il tempo occupato dalle cose ordinate nel nome che le classifica sia sempre più presente e totalizzante e che neanche il teatro sia più un luogo franco ove sperimentare il luogo dell’altrove. Non so cosa sia accaduto, il reale forse continua ad essere come è sempre stato, forse la società va sempre più uniformandosi o forse più semplicemente sto invecchiando, i piccoli dolori del mio corpo lanciano avvertimenti di vulnerabilità prima sconosciuti. Così ho iniziato a raccontare storie come necessario tentativo di pratrazione infantile e come antidoto all’alito della morte.

Si racconta anche un po’ per non morire, perchè le cose continuino ad essere. Forse queste sono già delle buone ragioni per continuare a cercare e a raccontare. In questi tre anni di racconti ho incontrato gente molto diversa, ascoltatori di età differente, ho raccontato storie nei posti più svariati e ho con crescente stupore constatato quanto grande fosse il bisogno di sentirsi raccontare una storia.

Così, nel tempo, ho cominciato a raccogliere via via che l’esperienza si ripeteva, riflessioni e pensieri che mi venivano, che mi nascevano confrontando il mio lavoro con altri, oppure con libri scritti sull’argomento, o più spesso con incontri che accadevano e che sembravano proprio fungere da illuminazione verso il mio percorso. Ora il materiale è raccolto come fosse un libro, e questa è una bella contraddizione per chi come me invece agisce usando la parola orale della narrazione. Comunque gli scritti restano, le parole sono invece eventi meravigliosi che valgono molto solo per chi è lì ad ascoltarle con la giusta attenzione. Sono pensieri frammentari, riflessioni spezzate, scritte in tempi diversi e con modalità diverse. A volte su un tema si torna più volte. È segno che continua ad essere un terreno da esplorare, un nodo della mia ricerca. Continuando il percorso altri temi esigeranno un tempo di riflessione, ma un giorno, non so quando, resteranno solo i racconti, e questo anche sarà segno che qualcosa è cambiato e che sarò pronto per intraprendere altri cammini.

Marco Baliani

Quaderni dell’animale parlante numero 2/Luglio 1991

Comune di Genova

Assessorato istituzioni scolastiche

Ufficio Studi

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