MARCO BALIANI. NOTE DI REGIA

Ma che c’entra Baliani con Accorsi?

Tutt’e due in scena, due attori così diversi?

Ma il Furioso Orlando sono già due stagioni che gira con Accorsi in scena e regia di Baliani. Che bisogno c’era di farne una nuova versione? È la stessa frittata rivoltata per riempire i teatri: perché intanto va detto che il Furioso Orlando è stato un successo di pubblico senza precedenti. Va bè e allora? Allora succede che dopo due anni ti accorgi che quello che hai fatto era una scoperta interessante ma che si poteva fare di più. Mentre seguivo Nina Savary e Stefano Accorsi nella loro evoluzione, e vedevo la forza teatrale del repertorio, della ripetizione che genera nuove idee, ecco che mi invitano al festival di Mantova a fare una maratona di incursioni ariostesche insieme ad altri scrittori, registi, poeti, attori, il tutto di notte, nelle stesse sale e giardini dove presumibilmente Ariosto declamava il suo poema. Mentre noi, frammentati autori, dicevamo la nostra sul poema e sulla di lui figura, c’era un nastro registrato di voci attorali che interpretavano brani dell’opera. Erano insopportabili, un birignao di tromboni che nulla facevano sentire del testo ma esprimevano solo la loro altisonante tecnica vocale. Ho provato allora a immaginarmi Ludovico Ariosto tra quei giardini e in quelle sale che declama il suo poema. Ma declamava poi? Come raccontava le vicende, c’era musica, la faceva lui, era da solo? Come gli nascevano i cambi di scena, l’abbandono di un filone per cercare una nuova puntata recuperando un eroe dimenticato alcuni capitoli prima? Come decideva di accorciare, tagliare, ricucire, stava attento alle risposte del suo pubblico, provava prima di mettersi all’opera? Una grande invenzione linguistica si accompagnava per la prima volta a una grande intelligenza scenica. Un romanzo a fumetti, un compendio di future soap opere, un principio di foilleton. Sono corbellerie queste? Forse sì, lo sono, ma da artista devo immaginare un corpo in scena che dice parole e allora perché non provare a rendere il poema ancor più giullaresco, a farlo parente di quell’altro teatro che si svolgeva, appena fuori da quelle corti, nelle stesse piazze, magari con guitti che citavano a memoria gli stessi episodi, ma più rozzamente. Così ho voluto provare a esplorare il testo in una direzione ancor più radicale. Il gioco del teatro nel teatro è vecchio come il mondo, l’arte è saperlo condurre in un precario equilibrio, a misura, senza intaccare mai la poesia del poema, senza deridere i personaggi, senza distanza, ma con tutta la compassione amorosa dei guitti che amano le loro creature perché ci si identificano. Ci sarà dunque molta fisicità, senza scene, senza illustrazioni di alcun tipo, ogni gesto parola suono musica temporale, vento e accidenti vari sarà emesso da quei nostri due corpi affannati e saltellanti. Il centro sarà sempre il tema dell’amore, corrisposto e non, violento e non, tradito e non, con le due coppie di Orlando e Angelica e Bradamante e Ruggiero, e noi due che entriamo e usciamo dai personaggi, creandone altri intorno, mostri compresi, giocando, appunto, sulla corrispondenza delle rime infilate in un ritmo galoppante, con molta improvvisazione verbale, con rime difficili da trovare, con gesti difficili da compiere. Saltando spazi e tempi con un semplice gioco di luci, o con un salto in più su una pedana rialzata. Stefano sarà il cantore che aggancia i vari episodi in un flusso più continuativo, io invece sarò un fool, a far da regista in scena, a diventare spalla e comprimario, a tendere trappole e inventare strofe. Ma ecco, che grazie a questo gioco, a questa ludica gioia teatrale, a tratti apparirà, per intero, la passione dell’amore, distillata e resa straziante, la forza dell’amicizia, in un attimo di commossa fratellanza, la furia della gelosia in un esercizio distruttivo.

Giocando con Orlando sorprenderà lo spettatore, che, dopo esser stato condotto al campo da gioco, alla giostra e alla helzapoppiniana baraonda, si troverà all’improvviso di fronte a qualcosa di antico, i sentimenti, avrà appena il tempo per sentirli e provare qualcosa che assomiglia alla nostalgia, per poi essere trascinato di nuovo sulle montagne russe dell’Ippogrifo volante o dell’Orca ruggente.

Marco Baliani