Il 4 luglio 1849, dopo un assedio e un bombardamento durissimo, le truppe francesi, tradendo la loro stessa costituzione, riconsegnarono Roma a Pio IX. Mentre i soldati francesi sciamano dal Gianicolo, in Campidoglio si festeggia la nascita della Costituzione repubblicana, una carte dei diritti e dei doveri che diventerà un modello per la nostra e per le tante carte costituzionali del mondo occidentale.

Il sogno della Repubblica Romana durò dunque un solo giorno. Per quel sogno morì sulle mura di Roma un’intera generazione di giovani. I loro nomi sono ancora inscritti sulle nostre strade, Mameli, Dandolo, Manara, Morosini. Morirono anche donne, gente del popolo, ragazzini. E poi tanti volontari, garibaldini, studenti accorsi da ogni parte alla difesa di Roma, tutti contagiati da uno spirito nuovo, pronti a misurarsi con la grandezza di un progetto fino ad allora sognato.

Con questo spettacolo vogliamo raccontare l’epopea di un pezzo importante della nostra Storia, la fascinazione giovanile verso un ideale rivoluzionario in nome della libertà e della democrazia, le contraddizioni tra gli stessi combattenti, i conflitti tra i loro ideali e la semplicità vendicativa del popolo, la nascita di improvvisi amori.

La visione che guida lo spettacolo è l’immagine di una barricata, un urlo di oggetti scagliati fuori dalla vita di tutti i giorni, accatastati per alzarsi a fronteggiare l’impossibile.

Una barricata composta di storie, di voci, di volti, un arazzo di immagini corali, un dispiegarsi epico di racconti, monologhi, improvvisi dialoghi, un intersecarsi di corpi, canti, musiche, a cercare di rendere visibile il caos gioioso e terribile della rivolta e l’ordine difficile delle idee e dei proclami. Un pullulare vulcanico di elementi che spingono, cozzano, si urtano, si affratellano e si spezzano.

La scena costruita da Carlo Sala assemblando oggetti e frammenti di interni strappati alla realtà del quotidiano, visualizza la dimensione corale dello spettacolo, è essa stessa un elemento fortemente drammaturgico, è un organismo vivente che si modifica durante lo spettacolo, viene smontata, depauperata, spostata, ricostruita, segnando così l’andamento temporale della vicenda, indicando l’urgenza di un tempo assediato, contratto, dove gli accadimenti si succedono abbarbicati uno sull’altro.

Gli attori, a volte coro compatto, a volte voci dissonanti, a volte ancora personaggi dialoganti, partecipano alla costruzione drammaturgica, restituendo in scena la freschezza del lavoro compiuto durante le prove, quelle parole-azioni nate improvvise intuizioni, in giornate dense dove l’allenamento imposto al gruppo era proprio quello di una condizione di assedio, in cui trovare soluzioni immediate, non meditate, urgenti nel loro affastellarsi.

Lo spettacolo così mostra un percorso di corpi capaci di relazionarsi e intersecarsi con estrema velocità, come elementi di una partitura musicale, in un fluire di immagini che, senza cadere nella trappola della rievocazione storica, alludono per frammenti a una memoria pittorica sedimentata nel nostro immaginario, ai quadi di Girolamo Induno, ai colori di Fattori, alle composizioni di Hayez.

La musica di Mirto Baliani irrompe sulla scena anch’essa in forma di barricata sonora, composta per recupero e smontaggio di suoni che si innestano in micropartiture operistiche, in scie di bande musicali, in ricordi di parate. Una musica che trascina i corpi attorali in improvvise sequenze di gesti, in caroselli forsennati, in movimenti corali che amplificano il gesto di un personaggio. A tratti, dilaniata, scomposta, frammentata, si ascolta la musica di Mameli, come un perdurante impossibile richiamo alla volontà di essere paese, nazione, patria.

Ma è nella costruzione drammaturgica che lo spettacolo rivela la sua sostanza. È nella elaborazione del testo, costruito a tre mani, nel tempo, come ricorda Ugo Riccarelli nelle sue riflessioni, per poi appuntarsi sui corpi degli attori nella drammaturgia, anch’essa work in progress, di Maria Maglietta.

Lo spettacolo è una tessitura complessa di elementi, dove anche le luci di Luca Barbati sono materia scenica vibrante, in una fusione e alternanza di linguaggi che accadono senza soluzione di continuità, in un unico respiro in corsa, in un incessante affanno espressivo.

I conflitti che animano i singoli personaggi e che pur delineano in loro un’evoluzione, un filamento di storia personale, riflettono e amplificano i conflitti della storia della Repubblica Romana, di quella manciata di giorni speciale, in cui un’utopia rivoluzionaria si è fatta concreta scrittura di articoli e leggi.

I conflitti che qui indaghiamo e mostriamo fanno ancor oggi vibrare i nervi scoperti di un paese che a centocinquanta anni da quei giorni ancora si muove e si agita e si interroga su quegli stessi conflitti irrisolti, sul senso della democrazia, della unità linguistica e culturale, sul senso dell’appartenenza a un’unica bandiera, dell’accoglienza e del sapere civile che questa appartenenza comporta in termini di diritti e doveri.

Marco Baliani