Le immagini di guerre, stragi e atrocità che quotidianamente vengono trasmesse dai media, il modo in cui sono montate, la loro frammentarietà e giustapposizione, impediscono qualsiasi elaborazione collettiva delle tragedie che vengono mostrate, sono fatte per renderci impotenti di fronte agli orrori, ai delitti che ogni giorno ci vengono fatti vedere senza che noi si possa mai davvero compatire le vittime. La compassione è un’azione forte, un farsi carico dell’altro, come persona e come persona portatrice di storia. Queste forme di comunicazione frammentaria sono ascrivibili allo stesso procedimento di “smembramento” della realtà che compie l’attentato terroristico. In entrambi i casi, la realtà viene frantumata, si impedisce di ricostruirne un senso, un percorso, una spiegazione. Si vieta di ricomporre l’infranto. Si vieta di poter elaborare collettivamente il lutto e così di comprendere quale percorso abbia portato a tanto scempio. L’opera Il sogno di una cosa è pensata come un’occasione per ricomporre in un’azione scenica la nostra tragedia, ponendo inquietanti domande allo spettatore, sul senso di quella strage e sul senso di questa nostra attuale società che di quella strage è figlia. Di quella e delle altre troppe stragi insolute che hanno costellato la vita di questo nostro paese. Come accadeva nella tragedia greca, dobbiamo riuscire a celebrare un reale cordoglio, un compianto corale pubblico che possa elaborare il lutto senza esaurirsi nel lamento ma nella presa di coscienza del conflitto, trasformando quel conflitto in un nutrimento per le nostre presenze in questo tempo. È necessario un coro che sappia farsi carico della coscienza tragica della storia, per questo l’opera è declinata al presente, siamo qui a occupare uno spazio pubblico, stiamo parlando alla polis, il nostro è un atto eminentemente politico, nel senso più alto del termine. La musica di Mauro Montalbetti guida e tesse questa ricomposizione dell’infranto, attraverso quadri scenici che focalizzano tematiche e domande, senza costruire un racconto lineare ma procedendo per scarti improvvisi, attraverso registri linguistici diversi: azioni sceniche di corpi danzanti, immagini proiettate su superfici cangianti, monologhi, melologhi, dialoghi, fatti di cronaca, notizie, stralci dei processi, testimonianze storiche, canto, canzoni, questi linguaggi interagiscono con la partitura musicale in una tensione sempre proiettata sulla scena del presente, sulla necessità di essere ora qui, a dire, a testimoniare, a non dimenticare, a fare i conti col nostro passato prossimo. Fin dall’inizio ho lavorato a comporre coralmente un “textum”, una tessitura di linguaggi diversi che vadano sempre a ricomporsi in unità dense, visivamente compatte, come capitoli di un’unica scrittura scenica. Ogni contributo, dai montaggi visivi di Alina Marazzi alle scene mobili di Carlo Sala, al disegno luminoso di Stefano Mazzanti, alle mie parole scritte, vanno a compenetrarsi in quadri espositivi che esauriscono in sé quel capitolo del racconto. Per poi passare a un altro quadro, a una diversa sostanza. Anche la musica di Mauro Montalbetti agisce così, senza una continuità lineare e diacronica ma per comparti, per strati di tessiture sonore diversificate. E poi ci sono i corpi, quelli danzanti dei giovani attori e attrici della civica Paolo Grassi di Milano, che intersecano il lavoro performativo sonoro di Roberto Dani, il corpo cantante di Alda Caiello, il coro, e i corpi musicanti dei Sentieri Selvaggi guidati da Carlo Boccadoro. Anche loro, le loro azioni canti presenze sono da intendersi per me come altri linguaggi, non come interpreti soltanto, ma come portatori di un’altra forma poetica della tessitura complessiva.

Marco Baliani